“Consumami il cuore: malato di desiderio / e avvinto a un animale morente / non sa più cos’è / e accoglimi / nell’artificio dell’eternità”.
Il bel titolo del libro trae spunto da alcuni versi del Byzantium di W. B. Yeats.
Il professor Kepesh e le sue ossessioni erotiche. Il dominio sul corpo, la sottomissione al corpo, il tempo che (s)fugge, la lussuria come merce di scambio per non sentirsi soli, l’amore come malattia, il sesso come antidoto alla morte, masturbazioni ritmate da sonate classiche e grandi romanzieri.
È un monologo con la propria coscienza quello che Roth costruisce con questo romanzo, una fragilità emotiva che va a braccetto con la perversione di “sentire l’intensità di ogni ultima grazia perduta. Di essere vecchio, ma in un modo nuovo”.
Sullo sfondo la questione politica americana e cubana, solo sfiorata, mai approfondita.
Roth non mi trascina nel suo baratro, tuttavia il finale non mi lascia indifferente.
«Non farlo».
Cosa?
«Non andare». Ma devo. Qualcuno deve stare con lei.
«Troverà qualcuno».
È terrorizzata. Io vado.
«Pensaci. Rifletti. Perché se ci vai, sei finito».
Esiste un potere più grande del desiderio che ci rende vivi?