Napoli, 1981.
Una casa nel cimitero della città.
Il vissuto della famiglia Imparato narrato attraverso il richiamo ad una delle opere più belle di Caravaggio, Sette Opere di Misericordia.
La tragedia dell’esistenza traslata in quella mediatica di Alfredino Rampi, il bimbo caduto in un pozzo artesiano nell’estate di quell’anno, la cui salvezza è invano attesa dai protagonisti del romanzo come la nascita di un Cristo Redentore.
Personaggi infelici, con umori e malumori contagiosi, tristemente consapevoli di non poter più elaborare nemmeno vecchi sogni, ormai abbandonati ed infranti.
S’appara tutto è l’illusione menzognera a cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà, la finzione per mantenersi uniti nelle mura domestiche. Una miseria umana che invoca l’assoluzione dei peccati, ma che in risposta ottiene unicamente l’angoscia della catastrofe.
Un drammatico intreccio fra l’anima sguaiata dei quartieri e l’innocenza di Nicola, il figlio piccolo, bullizzato dai compagni per un suo difetto fisico, amante dell’universo e delle stelle, che raccoglie su un quadernuccio i suoi pensieri sulla vita.
Una prosa affascinante, un plot perfetto per una trasposizione cinematografica alla Özpetek.
«[…] l’ho già scritto, io so immaginare molto bene e a volte fa bene non guardare le cose solo per come sono, pensarle un poco meglio, farle belle.
Allora, ieri sera, ho fatto la stessa cosa: ho puntato il telescopio sulla luna. E assieme a Laika ho visto pure Alfredino. Giocavano assieme, lei e il bambino. Saltavano da una stella all’altra, lei dimenava la coda e lui sorrideva, sorrideva assai.
Sembravano contenti. Sì. Secondo me, lo erano.»