Don DeLillo descrive, nel suo breve romanzo “Il silenzio”, edito da Einaudi 2021, l’agghiacciante trappola della dipendenza dal digitale. E lo fa con il suo stile lucido e profetico, segno distintivo di uno degli scrittori americani più celebrati tra quelli viventi.
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Schermo nero. Tecnologia in tilt.
Un silenzio alienante, ir-reale.
Tossicodipendenti digitali disorientati, costretti a ripetersi come un mantra “siamo vivi” (?), incapaci di compiere gesti diversi dallo scroll quotidiano.
Cinque personaggi che, seppur riuniti in una medesima stanza, si perdono nell’oscurità dei singoli flussi di coscienza. Un loop emotivo, tossico. Un precipitare nell’insonnia di massa di questo tempo inaudito. In un vuoto barcollante.
Frammenti umani di una civiltà.
È questo ciò che siamo diventati? Fra(m)menti di(s)persi.
Tutto quello che sta accadendo non era forse scontato? Niente più meraviglia, niente più curiosità.
Cosa succede alle persone che vivono dentro il proprio telefono?
DeLillo lo mette nero su bianco, seguendo il ticchettio dei tasti della sua macchina da scrivere.
Schermo nero. Pagina bianca.
Prima di chiudere il libro, lapis e nota a margine: l’autentica memoria siamo noi. O è solo oblio?
– Abbiamo paura? – chiese lei.
Lui lasciò questa domanda sospesa lì a mezz’aria, continuando a pensare tè e pasticcini, tè e pasticcini.