La Sontag è una delle poche intellettuali del ventesimo secolo capace di lasciare un segno – di approvazione o di dissenso – su chiunque l’abbia letta.
Una donna non comune. Un ardere continuo, senza sosta, in cui riconoscersi, come guardandosi allo specchio.
Questi diari e taccuini (1964-1980) sono pagine piene di frammenti di vita e appunti di lavoro, di umori-amori, di desideri che trovano conferma solo attraverso la parola. Lei stessa afferma che “senza desiderio non siamo nulla”.
Una bramosia che diviene il nucleo centrale della sua scrittura, del suo narrarsi.
Ne vien fuori un rapporto quotidiano sensuale, ferino, caratterizzato da una profonda irrequietezza.
Un costante ed ossessivo penetrarsi.
La Sontag scava solchi, ma non vuole essere afferrata mentre si confessa. È sfuggente, pur nella sua fragilità.
Non mi resta che sfogliare i suoi pensieri come mie vecchie fotografie, scattate a caso. L’abisso è lì, nel fuori campo. Si intravedono i vuoti, senza svelarne la profondità.
L’«Io» interpreta il ruolo di se stesso, con la coscienza imbrigliata al corpo.
Nota a margine: dis-ordine.
Il vero miracolo della scrittura accade quando si è capaci di mettersi a nudo?