In un tempo difficile, tra pandemia che sembra riprendere vigore, una guerra medievale nel cuore dell’Europa portata avanti da una potenza nucleare, scenari apocalittici di privazione di energie, di cibo, di acqua e di drammatici mutamenti climatici, si rischiano di mettere in discussione gli stessi cardini che hanno, invece, caratterizzato l’impetuoso sviluppo e la crescita del secolo scorso, seppur conditi da errori e divaricazioni sociali di non poco conto.
Sembra che la risposta ai drammatici e terrificanti temi, che il nuovo secolo ha restituito all’umanità, risieda unicamente in una risposta di tipo giuridico/istituzionale/pacifista che ci consegna, come docili agnelli pasquali, alle moderne autocrazie cinesi, russe e islamiche.
Tuttavia, la terra che ha dato vita all’illuminismo e alla rivoluzione francese, dopo quella inglese, esportata anche con strascichi violenti, nelle Americhe e nelle colonie africane, non può essere diventata la terra di conquista.
L’Europa, insieme agli Stati Uniti d’America, prima figlia della stessa Europa e poi emancipatasi da essa, al prezzo di centinaia di migliaia di propri giovani morti sui campi di battaglia europei, nella prima e nella seconda guerra mondiale, hanno ancora gli anticorpi per evitare che i propri popoli vengano assorbiti da società massificanti e prive di oggettive ed elementari libertà.
Tutto ciò sta passando sulla testa e nelle anime delle nostre società che avevano fatto l’epocale passaggio dalla logica del mondo diviso in due sancito a Yalta, all’abbattimento del muro di Berlino, passando alla messa in discussione del fordismo novecentesco caratterizzato dall’aspra dialettica capitale-lavoro e al postfordismo basato sull’egemonia della micro e piccola impresa diffusa variamente nei territori.
L’umanità era appena entrata in una nuova fase, quella dell’economia circolare, nella quale la socialità è alla base della creazione del valore economico sostituendo il profitto privatistico irresponsabile con un un nuovo concetto di responsabilità sociale.
Questi anni hanno versato cloroformio su una incipiente rivoluzione culturale che era frenata anche da beceri tentativi di sottomissione dei territori.
A regolare questi processi avrebbero dovuto essere chiamati gli stati che hanno però mostrato il fianco alla frammentazione e alla incapacità di mediare gli interessi.
Lo stato come arbitro degli interessi e non come un semplice giocatore interessato ad appropriarsi di spazi di ogni tipo sarebbe stata una chiave importante per fare un balzo culturale nel terzo millennio.
Ma i morti sembrano aggrapparsi ai vivi e il residuo e pervertito residuo ideologico novecentesco si è avvinghiato al nuovo.
In fondo Putin non è altro che la plastica metafora di questo residuo, come lo stesso Xi Jinping o come la Lagarde.
Insomma l’umanità è mobilitata nel trovare nuovi antidoti ed anticorpi per sopravvivere che probabilmente è il cosiddetto ed abusato concetto di territorio chiamato a posizionarsi in modo intermedio tra Stato ed il mercato a difesa dell’inerme e solitario cittadino che vive una vita di spaesamento di fronte ai grandi cambiamenti e alle immense tragedie.
Il territorio come bussola di orientamento per coloro che cercano nuove modalità per ricucire il tessuto sociale e la propria economia, forse un pò stantìa, ma ancora ben radicata nei territori.
Questo tentativo di riammagliare e ricomporre fratture non è un compito semplice tenuto conto che spesso non si riconoscono più nemmeno le tradizionali autorità dichiarate colpevoli del difficile e complicato momento.
Un tentativo che può essere condensato nella riscoperta della comunità, cioè della riscoperta di un luogo, fisico o no, in cui i partecipanti hanno la consapevolezza di vivere le stesse problematiche ma soprattutto hanno la percezione chiara che fuori dalla comunità non vi è nulla se non tragedia e morte. Ricostruire la comunità significa cominciare il duro lavoro di riedificazione delle sue braccia operative partendo dal senso di libertà, di laicità, ma anche di dovere e di rispetto.
Insomma, regole nuove fondate su valori antichi, naturali e prepolitici.
La famiglia, il mondo associativo, la Chiesa, gli ordini professionali e dei mestieri sono braccia antiche che sono state erose e messe in discussione per dare spazio a mondi nuovi, sconosciuti, pericolosi che mettono in discussione l’esistenza stessa dell’umanità.
Ricostruire le comunità non è solo una questione di risorse economiche, ma ci vuole molto di più, forse troppo di più, ci vuole la riedificazione del senso di comunità in cui si possa rilanciare un protagonismo reale delle energie che vi insistono.
Come qualcuno sostiene l’umanità, anche in Italia, è passata da una società dotata di scarsi mezzi, ma con fini chiari e definiti ad una società con mezzi straordinariamente imponenti, ma con obiettivi nebulosi in cui a volte il lavoro è costretto a scendere a vergognosi compromessi con il futuro.
La comunità non è solo il luogo della messa in comune delle lamentazioni ma è soprattutto il luogo della mediazione e negoziazione degli interessi che possono essere difesi e tutelati più agevolmente anche nell’era del digitale e dell’informazione, anche cattiva, alla portata di tutti.
La comunità è la retrovia della conquista dei diritti che vengono messi in discussione nella prima linea del mondo del lavoro, a tutti i livelli.
Forse diventa importante aumentare il livello di confronto nelle comunità per far sintesi ma non per rimpicciolire gli scudi difensivi ma per renderli più forti.
Il tema delle comunità è all’ordine del giorno ovunque, in piccolo paese o nei momenti in cui ci si accorge delle aggressioni ai territori e bisogna intervenire come comunità e non come singolo. L’Italia sembra essere caduta in questo vortice, da tempo, e va aiutata a riprendersi, a partire dalla politica.
Siamo arrivati alla palizzata che brucia a Fort Apache, siamo al percorso finale che porta a Thule, ultima città prima del polo nord.
Oltre non c’è più niente, se non il baratro.